Motori motociclistici e salti generazionali

Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
Alcune grandi tappe che hanno segnato l’evoluzione della tecnica motociclistica in casa BMW, Ducati, Honda, Kawasaki e Suzuki
  • Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
13 maggio 2019

A un certo punto della loro storia vari costruttori hanno letteralmente voltato pagina, adottando soluzioni tecniche diverse da quelle che avevano impiegato fino ad allora. Tipico può essere considerato il passaggio dai cuscinetti di banco e di biella a rotolamento alle bronzine, accompagnato dalla adozione di un albero a gomiti in un sol pezzo al posto di quello composito impiegato in precedenza.

Alla BMW è successo alla fine del 1969 con l’entrata in scena della nuova serie /5. Fino ad allora nei bicilindrici boxer costruiti dalla casa bavarese l’albero a gomiti era composito e lavorava su cuscinetti volventi. La comparsa dei nuovi motori, capolavoro di Ferdinand Jardin, ha visto il passaggio alle bronzine e all’albero forgiato in un sol pezzo, con bielle dotate di cappello.
Spiccavano anche l’adozione di cilindrici bimetallici (in lega di alluminio con canna riportata) al posto dei precedenti in ghisa, e lo spostamento dell’albero a camme dalla parte superiore a quella inferiore del basamento. Inoltre erano diversi l’angolo tra le valvole, la pompa dell’olio (a lobi e non più a ingranaggi) e il sistema di fissaggio dei cilindri al basamento (con lunghi prigionieri passanti e non più con una flangia basale).
Insomma, i motori della serie /5 erano frutto di una nuova progettazione; rispetto ai precedenti solo lo schema a cilindri contrapposti rimaneva invariato.

Nei suoi quadricilindrici di grossa cilindrata la Suzuki è passata all’albero a gomiti in un sol pezzo lavorante su bronzine con la GSX 750 a 16 valvole del 1980, al quale si riferisce questo spaccato. La GSX 1100 però ha continuato a essere munita di un albero composito, come quello della precedente GS a 8 valvole…
Nei suoi quadricilindrici di grossa cilindrata la Suzuki è passata all’albero a gomiti in un sol pezzo lavorante su bronzine con la GSX 750 a 16 valvole del 1980, al quale si riferisce questo spaccato. La GSX 1100 però ha continuato a essere munita di un albero composito, come quello della precedente GS a 8 valvole…

Quando la Honda ha aperto l’era dei motori a quattro cilindri in linea trasversale, con la CB 750 Four, ha subito adottato un albero a gomiti monolitico e cuscinetti di banco e di biella a strisciamento, ovvero bronzine. Nell’autunno del 1972 anche la Kawasaki ha presentato la sua maxi quadricilindrica, dotata di una evoluta testa bialbero. In questo caso l’albero a gomiti era composito e lavorava interamente su cuscinetti volventi (quelli di banco erano sei).

La soluzione era stata adottata perché fino ad allora la casa di Akashi aveva costruito solo motori a due tempi (non fa testo il precedente bicilindrico ad aste e bilancieri ereditato dalla Meguro, copia di un BSA degli anni Cinquanta), che erano appunto dotati di alberi e di cuscinetti di tale tipo. Pure la Suzuki, che è entrata nel settore dei quadricilindrici a quattro tempi con la GS 750 (fine 1976), seguita a pochi mesi di distanza dalla GS 1000, ha inizialmente impiegato alberi compositi e di cuscinetti a rotolamento.
Entrambi questi costruttori giapponesi sono poi passati agli alberi a gomiti in un sol pezzo lavoranti su bronzine per tutta la loro gamma di motori a quattro cilindri, iniziando da quelli di media cilindrata (per gli altri è stato necessario attendere di più…).

Da tempo tutti i motori di serie ad alte prestazioni sono raffreddati ad acqua, ma in precedenza la refrigerazione ad aria dominava incontrastata

Da tempo tutti i motori di serie ad alte prestazioni sono raffreddati ad acqua (il glicol presente nel liquido usualmente impiegato è un “male necessario” del quale si farebbe volentieri a meno se fosse possibile), ma in precedenza la refrigerazione ad aria dominava incontrastata.
Le potenze specifiche erano notevolmente più basse e, con una alettatura ben realizzata, il raffreddamento risultava più che soddisfacente. Inoltre si impiegavano in genere due valvole per cilindro, notevolmente inclinate tra loro, e quindi c’era spazio per consentire all’aria di raggiungere le zone più critiche della testa.

Poi la situazione è cambiata: le prestazioni sono aumentate e si sono affermate le quattro valvole per cilindro, con inclinazioni notevolmente minori. La quantità di calore da asportare nell’unità di tempo è diventata imponente e l’aria non è stata più in grado di raggiungere zone particolarmente sollecitate come quella tra le sedi delle valvole di scarico. Inoltre, stava diventando importante poter disporre di un buon controllo termico del motore. Il passaggio al raffreddamento ad acqua è diventato così inevitabile.

 

All’inizio degli anni Settanta tra i modelli di serie impiegava il raffreddamento ad acqua solo il Suzuki tricilindrico GT 750 a due tempi. Poco dopo lo ha adottato anche il motore a quattro cilindri contrapposti della Honda Gold Wing, seguito sul finire del decennio dal bicilindrico a V di 80° della CX 500 della stessa casa (con teste a quattro valvole ma distribuzione ad aste e bilancieri). Per assistere alla definitiva affermazione del raffreddamento ad acqua è stato però necessario attendere gli anni Ottanta e la comparsa di modelli che hanno fatto la storia come i V4 Honda (1982) il Kawasaki GPz 900 (1983) e l’inizio della serie delle Yamaha FZ (la 750 è entrata in produzione nel 1984). Da lì in poi la scena è cambiata radicalmente e nel libro della storia della moto si è aperta una nuova pagina…

Nel motore bialbero della Kawasaki Z1 di 900 cm3, presentata al salone di Colonia del 1972, l’albero a gomiti era composito (9 parti unite con interferenza) e lavorava su cuscinetti a rotolamento
Nel motore bialbero della Kawasaki Z1 di 900 cm3, presentata al salone di Colonia del 1972, l’albero a gomiti era composito (9 parti unite con interferenza) e lavorava su cuscinetti a rotolamento

Arriva l'Iniezione

Dal punto di vista tecnico il fatto che sulle moto di media e grossa cilindrata l’iniezione abbia preso il posto dei carburatori è stato di straordinaria importanza. Questo anche se per gli utenti non è poi cambiato granché (in effetti la maggior parte dei motociclisti non ci ha fatto neanche caso).

La possibilità di controllare la dosatura della miscela con una precisione straordinaria ha avuto una influenza fondamentale sul contenimento delle emissioni. Anzi, lo sviluppo dei sistemi di iniezione è stato portato avanti proprio per soddisfare le sempre più stringenti norme in materia di limitazione degli inquinanti emessi allo scarico, che imponevano l’impiego delle marmitte catalitiche.

Perché questi dispositivi abbiano un elevato rendimento di conversione è infatti necessario che il titolo della miscela fornita al motore sia mantenuto all’interno di una ristrettissima “finestra di dosatura”. La sonda lambda viene impiegata proprio per consentire alla centralina di intervenire in modo da mantenere tale titolo ottimale con una precisione estrema.

Un altro vantaggio importante della alimentazione a iniezione è costituito dalla ottima atomizzazione del carburante che essa assicura, anche con ridotte velocità dell’aria nel condotto di aspirazione.

Sviluppare sistemi di iniezione in grado di funzionare impeccabilmente sulle moto non è stato facile e ha richiesto molto tempo.
Dopo alcune interessanti prove effettuate dalla Moto Guzzi prima della seconda guerra mondiale e dopo le numerose sperimentazioni della NSU e l’impiego di una iniezione meccanica in gara da parte della BMW negli anni Cinquanta, nel nostro settore per diverso tempo di questo tipo di alimentazione non si è parlato più. Perché si iniziasse a manifestare un ritorno di interesse nei suoi confronti è stato necessario attendere a lungo e fondamentale è risultato il contributo fornito dall’elettronica.

All’inizio degli anni Ottanta l’iniezione è stata adottata su un paio di grossi quadricilindrici Kawasaki e sulle BMW della serie K. Poco dopo è stata utilizzata sulla Ducati 851, con la quale ha avuto inizio la stirpe delle bicilindriche a otto valvole e con raffreddamento ad acqua della casa bolognese. Per assistere però alla affermazione su vasta scala della alimentazione a iniezione c’è voluto ancora del tempo. La svolta definitiva si è avuta solo nei primi anni Duemila, quando essa è stata adottata su tutti i quadricilindrici giapponesi di prestazioni più elevate.

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