I viaggi dei lettori: Montenegro Motorbike Tango - Ep.8

  • di Gigi Radice
Eccoci all'ultima puntata, il rientro. Ci sono poche cose noiose come un viaggio di ritorno. Se poi si percorre un’autostrada dritta come un raggio laser, la monotonia raggiunge vertici inimmaginabili...
  • di Gigi Radice
13 giugno 2021

GIORNO 16 - Il giorno dello sterro

«Finora abbiamo fatto indigestione di asfalto», avrebbe detto il mio amico Riccardo. Con lui, proprietario di un GS 1200 iperaccessoriato, abbiamo più volte discusso di quanto asfalto si percorre in viaggio rispetto allo sterrato, sterro in gergo, che ci piacerebbe fare. E anche qui tra Montene­gro e Bosnia di sterro ne abbiamo trovato poco. «Per fortuna» mi ha detto una sera mia moglie. «Siamo carichi come muli, non conosciamo nemme­no tanto bene il territorio. Ci manca solo di infilarsi in una mulattiera e finire a gambe all’aria. Lascia perdere ’ste stronzate» ha tagliato corto alla fine. Tutto giusto, ma io amo andare in fuoristrada, niente di impegnativo sia chiaro, e con un Africa Twin, moto che ha l’avventura nel nome, trop­po asfalto può far male.

In ogni caso non sono solo e anche gli altri biker non sono troppo propensi a uscire dai binari tranquillizzanti dell’asfal­to. Ma più dei miei desideri poté Google Maps, il credo che mia moglie, eletta a furore di popolo navigatrice ufficiale della vacanza, professa nel nome della tecnologia. Un occhio alla carta lo diamo sempre, ma mentre si viaggia è Google Maps via telefonino a dare la rotta. Finora non ci ha mai tradito, e anche oggi che stiamo percorrendo questo trasferimento di 250 chilometri che ci separa da Spalato ci affidiamo alle indicazioni del nostro guru tecnologico e della sua medium che siede dietro di me. «Tra venti chilometri vai a destra, attraversiamo il parco di Prirode Blidinje. Va’ piano perché dopo Konjic diventa una strada di montagna stretta e pie­na di curve». Il mio casco che va su e giù è l’«ok, ho capito!» che attende. E in effetti bastano pochi chilometri per avventurarsi tra valli e canyon che slalomeggiano tra montagne e speroni di roccia. Guardo nello spec­chietto e gli altri due, anche loro a bordo di una moto da fuoristrada con gomme tassellate, seguono, fiduciosi, affascinati dal paesaggio.

«Primo centro abitato?» chiedo, anodino, senza mostrare apprensione alcuna. «Tra una cinquantina di chilometri» è la risposta. Estikatzi, penso, men­tre guardo il display che assicura 70 chilometri di benzina. Non c’è da scialare, ma se manteniamo questa andatura dovremmo farcela. In ogni caso mi mangio le mani per non avere fatto il pieno di benzina prima di abbandonare la statale. Inutile piangere sul latte versato (o sulla benzina non versata nel serbatoio). Sono abbastanza tranquillo, comunque non tiro le marce per evitare eccessi di consumo. Andatura tranquilla, curve dolci di una strada che sale lentamente, scenografia da film western, una meraviglia verrebbe da dire. Se non fosse che quando stiamo per scavallare l’ennesimo passo è l’asfalto ad abbandonarci: uno, due, cinque chilometri di sterro. Troppi anche per una strada secondaria nel cuore della Bosnia.

Ohibò! Avremo mica sbagliato strada? Ci fermiamo. Breve consultazione incrociata di carte stradali e Google Maps e poi tra di noi per decidere: non vale la pena tornare indietro, potremmo rimanere sen­za benzina, la strada è comunque questa, probabilmente non è segnata come non asfaltata. Ok, ma per quanto andrà avanti? In queste condizio­ni dobbiamo rallentare l’andatura e stare molto più attenti al tracciato e agli agguati di una strada sterrata. Per non parlare della benzina. Riusci­ranno i nostri eroi a raggiungere Spalato in tempo per imbarcarsi? Non senza qualche momento di apprensione (soprattutto per il carburante) i quattro temerari ce l’hanno fatta (ovviamente) e sono anche stati abbon­dantemente ripagati da un itinerario mozzafiato, lungo il quale era diffi­cile incontrare auto.

Asfalto e sterro si sono alternati per una quarantina di chilometri, all’interno del parco. Il primo centro abitato, Tomislavgrad, enclave croata nel cuore della Bosnia, è stato anche il motivo di una so­sta per l’agognato pieno di benzina e per togliersi di dosso la polvere di una strada entusiasmante che ancora meraviglia i nostri occhi. Il traffico e le luci di Spalato sono a pochi chilometri, ma la testa è ancora sull’al­topiano, tra i covoni di fieno e le mucche al pascolo. Tutto il resto, come cantava il Califfo, è noia.

GIORNO 17 - Bagno con furto

Qualche piccolo inconveniente l’avevo messo in conto. Temevo per la moto, ha vent’anni, qualche cosa poteva rompersi. E in effetti è pure suc­cesso: niente di grave, un contatto elettrico usurato che abbiamo cam­biato in Montenegro grazie all’aiuto di un meccanico d’altri tempi. Un paio d’ora di sosta, un po’ di apprensione, ma poi è andato tutto liscio. Temevo soprattutto che potessero danneggiarla nel tentativo di rubare qualcosa. La moto in sé ha un valore diciamo storico. Da queste parti circolano pezzi ben più nuovi e appetitosi per chi vive di questo. In ogni caso c’è sempre il pirla che prova ad aprire le borse nella speranza di tro­vare chissà che cosa. Al massimo ti ruba i guanti di scorta, la bomboletta del Fast. Una seccatura, ma non pregiudica il proseguimento del viaggio, come è successo ai nostri due compagni di viaggio.

Quel che invece non avevo messo in conto è il furto (di un telo da bagno, ma sarebbe meglio dire straccio tanto era consumato) con destrezza in uno stabilimento balneare con tanto di ingresso a pagamento. Tutto ciò succede a Spa­lato che ci accoglie con le braccia aperte (e le mani leste) di ogni città affacciata sul mare: solare e ventilata, incasinata come si conviene a un porto turistico commerciale, opulenta e chiassosa come questi Balcani croati che hanno raggiunto in pochi anni un benessere insperato grazie ai commerci con l’Europa che conta e a una costa frastagliata e punteg­giata da isole che ha stimolato un turismo balneare con servizi efficienti a prezzi non proibitivi.

Per noi l’arrivo a Spalato è abbracciare di nuovo i nostri compagni di viaggio appiedati e un ultimo tuffo prima di salire sulla nave. Mancano poche ore all’imbarco e non abbiamo molte pretese. La spiaggia dove incontriamo Paola e Marco è quella dietro al porto: l’hanno scelta per­ché appiedati non avevano molte altre opzioni. Moletto, lettini, karaoke e generi di conforto per tutti i gusti e tutte le età: c’è tutto per essere a proprio agio. Soprattutto potendosi togliere le armature da motocicli­sti e indossare un molto più funzionale costume da bagno. L’operazione non sembra impossibile. Alcune cabine vicino alla pineta che delimita lo stabilimento balneare promettono privacy adeguata al cambio d’abito. L’operazione non dura più di cinque minuti, ma uscendo dalla cabina mi accorgo di non avere preso il telo da bagno. Ritorno sui miei passi, ma del vecchio telo, da anni fedele compagno di scorribande per le spiagge del Mediterraneo non c’è più traccia. Come per incanto la cabina sembra averlo ingoiato. Oppure, qualcuno con destrezza da borseggiatore l’ha sfilato dall’esterno mentre mi cambiavo.

Ora, non è per il valore, irriso­rio, del telo, peraltro abbondantemente usato durante la vacanza, né per l’improvvisa mancanza (eravamo alla fase finale del viaggio), quel che secca è la figura da pollo, un colpo al superIo e all’autostima. Colpito e affondato dopo tremila chilometri di viaggio e avventure, da un ladrun­colo da spiaggia. C’è di peggio, dicono i miei compagni di viaggio. Certo, potrebbe piovere e io non avrei nemmeno il telo per ripararmi dall’acqua. Per consolarmi i miei amici ordinano sei birre ghiacciate che arrivano accompagnate da patatine fritte. È l’ora dell’aperitivo e i riti vanno os­servati a ogni costo. Tra un’ora saremo sul molo in attesa di imbarcarci e dobbiamo essere pronti a spingere la moto di Marco sul traghetto: le probabilità che la frizione continui a fare i capricci è alta e il biglietto di viaggio impone che la moto al momento dell’imbarco sia in condizioni di marciare: gli addetti del porto non garantiscono nulla, bisogna parlare direttamente con i marinai della nave che coordinano le operazioni di imbarco. Una birra e soprattutto il buonumore potrebbero aiutarci a es­sere più convincenti.

 

Giorno 18 - Gli ultimi 400 chilometri

Ci sono poche cose noiose come un viaggio di ritorno. Se poi si percorre un’autostrada dritta come un raggio laser, la monotonia raggiunge vertici inimmaginabili. Se il laser viaggia in tempo reale, la velocità sull’autostra­da (limiti a parte) è sempre contenuta se si è in sella a una moto. Io per esempio raramente supero i 120 all’ora. Questione di prudenza e anche di comfort. In ogni caso se i chilometri sono più di 400 e le uniche inter­ruzioni al guardrail sono le uscite dall’autostrada e gli ingressi alle aree di servizio capite anche voi che il menu di giornata non brilla per varietà. Se poi a tutto questo aggiungiamo la destinazione, Milano, e la prospettiva del giorno successivo, rientro in ufficio, il livello di entusiasmo si misura con l’ausilio delle nanotecnologie.

Innanzitutto i saluti. Marco e Paola hanno caricato la moto malata sul carroattrezzi, il garage Bmw di Ancona che assomiglia a un reparto di medicina nucleare la aspetta per l’intervento a cuore, inteso come mo­tore, aperto. Noi altri quattro ci regaliamo un cappuccioebrioche a testa prima di imboccare l’autostrada. Anna e Giacomo si fermeranno nei loro possedimenti romagnoli, i saluti post cappuccio sono un arrivederci a settembre. Inutile parlare di veli di tristezza e rammarico per la fine del­la vacanza, ipotesi di nuove avventure; un’unica cosa ci consola: non ci rivedremo per la proiezione delle diapositive delle vacanze. Smartphone e whatsapp hanno permesso la condivisione dei momenti salienti del viaggio, con tanto di commenti, in tempo reale. E anche Cesare che ci ha lasciato qualche giorno prima ora fa già battute sulla sfacchinata che ci aspetta: gli emoji si sprecano, ma noi non abbiamo tempo da perdere.

Via il dente, via il dolore. E partiamo. Obiettivo: fare almeno 150 chilometri prima del primo caffè: la scusa è il rifornimento di benzina, il timore è che la mia compagna di viaggio si addormenti come regolarmente succe­de durante questo tipo di trasferimenti. Periodicamente lancio segnali, a volte anche qualche pizzicotto, per evitare che dal torpore passi al sonno rem, ma vincere la noia è praticamente impossibile anche per me. Prima di distrarmi nel labirinto dei miei pensieri, le insegne di un auto­grill diventano come l’oasi per i nomadi nel deserto. Anche perché per i motociclisti il piazzale dell’autogrill è un qualcosa di più di un pit stop. Prevede nell’ordine le seguenti operazione: discesa dal mezzo, via casco e guanti, sgranchimento delle articolazioni inferiori oramai anchilosate, controllo dei messaggi sul telefonino con invio di risposte qualora ne­cessarie, occhiata al mezzo per valutare stato dello stesso e soprattutto dei bagagli sul portapacchi, ingresso stile John Wayne nell’autogrill vero e proprio per consumazione rigenerante di caffè.

Prima della ripartenza, se riuscite a evitare il collega, normalmente alle prese con una sigaretta, che a fianco della sua due ruote vi chiede provenienza e destinazione del vostro viaggio, si fa rifornimento, si procede alla rivestizione e, dopo una rapida occhiata alla carta per capire quanto manca alla fine, si ripar­te. Nell’arco dei 400 chilometri ripetiamo questa operazione almeno al­tre due volte: nel frattempo la temperatura si è alzata e anche a Milano il termometro ci rassicura che siamo ancora sui 30 gradi. Il nostro viaggio, compresa questa agonia finale, può considerarsi terminato, l’estate starà anche finendo ma qualche smotorata in Liguria ce la possiamo ancora permettere. Le curve dell’Appennino possono regalare ancora qualche gioia prima di rimettere la moto in garage per l’inverno.

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